Alcuni giganti del web, da Microsoft a Google passando per Amazon, pagano la società tedesca Eyeo per il «privilegio», di bypassare, coi loro annunci pubblicitari, i filtri di Adblock Plus, un software che molti utenti installano sui loro browser proprio per sfuggire al bombardamento dell’advertising online.
La notizia, pubblicata dal Financial Times, ha provocato reazioni che vanno dall’indignato allo stupito. Nel silenzio di tutti i principali interlocutori, si può essere tentati di ricorrere ad espressioni forti tipo pagamenti sottobanco. Qualcuno vorrebbe parlare addirittura di «mazzette», ma in realtà quelle che stiamo cominciando a intravvedere nel gran polverone di dati e messaggi scambianti in rete sono transazioni che, se venissero confermate, non dovrebbero avere nulla di illecito. Il filtro è uno strumento messo a disposizione di alcuni utenti: chi lo utilizza se lo prende con tutte le correzioni dei suoi meccanismi interni decisi da chi l’ha sviluppato.
La notizia, se vogliamo, non è nemmeno nuova: nel maggio del 2013 Microsoft ammise i pagamenti e allora il sito tedesco «Horizont» scrisse, non smentito, che Google e altri pagavano per eludere i «buttafuori» di Adblock. E allora perché lo scalpore di oggi con siti tecnologici come Gizmodo che parlano di «tecniche di stile mafioso»? Perché, nonostante tutte le disillusioni di questi anni, sotto sotto continuiamo a credere che gli operatori del web siano imprenditori che magari non sono i «missionari del bene» dello slogan originario dei fondatori di Google («don’t be evil»), ma hanno comunque un’etica degli affari che, tra economia della condivisione e servizi offerti gratuitamente agli utenti, è ben superiore a quella dei vecchi «padroni del vapore». Entro certi limiti la cosa è forse anche vera, ma basta grattare poco oltre la superficie per scoprire che il capitalismo digitale offre mille opportunità di guadagno «border line» tanto agli squali della rete quanto ai geni della Silicon Valley con la faccia da filantropi. E, cosa forse ancora peggiore, la complessità di queste tecnologie unita alla segretezza delle transazioni tra aziende private che non hanno alcun obbligo di comunicare i loro affari, rendono impossibile comprendere fino in fondo quello che sta realmente accadendo in un ecosistema della comunicazione nel quale, pure, siamo tutti immersi.
Così, non è nemmeno chiaro chi sia il «cattivo» di questa storia di esattori che comprano e vendono pezzi della nostra attenzione: le onnipotenti multinazionali di Internet che pagano (sottobanco?) per continuare a sommergerci di pubblicità? O la società che ha creato il software di protezione, salvo poi vendere esenzioni un tanto al chilo? Certo, nessuno è obbligato a usare il filtro di Adblock che, pure, ha 300 milioni di utenti. Chi lo considera disonesto o inaffidabile può rivolgersi ad altri o rinunciare a filtrare gli annunci. La società tedesca sostiene di aver creato già da anni (forse fin dal 2011) una «Acceptable Ads whitelist», ossia un elenco di piccole società e siti che, producendo un volume di pubblicità molto limitato e poco invadente, non vengono assoggettati alla mannaia del filtro. Per queste società l’esenzione è gratuita, mentre i grandi operatori del web pagano per ottenere il «salvacondotto», nessuno sa quanto. In discussione, tra l’altro, non è solo la liceità e la trasparenza di queste esenzioni, ma il meccanismo stesso del filtro. Da anni in rete si discute del fatto che per Internet, alimentato fin dalle origini dal lavoro volontario degli utenti ma anche dalla pubblicità generata dal web, strumenti come Adblock finiscono per operare come dei «killer» della libertà di navigazione. E in Germania ci sono già editori che, sentendosi danneggiati dai filtri in questione, hanno trascinando Eyeo in tribunale chiedendole i danni: l’hanno fatto la rete televisiva RTL e ProSieben-Sat.1 mentre anche alcuni editori francesi starebbero considerando mosse analoghe. Troppo spesso gli enti di regolamentazione, soprattutto in Europa, hanno operato come freni all’innovazione e alla creatività degli imprenditori. Ma quella di costruire caselli sulle autostrade digitali e far pagare pedaggi «selettivi» è una pratica che di innovativo ha ben poco.
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