Una donna è stata “giustiziata” in strada a La Mecca, con sentenza eseguita tramite decapitazione.
Laila Bint Abdul Muttalib Basim, una donna birmana residente in Arabia Saudita, è stata condannata a morte per abusi sessuali ed omicidio della propria figliastra. Non sappiamo se la donna fosse colpevole o innocente, ma sappiamo invece che razza di processi e di giustizia ci sono in Arabia e come vengono trattati gli immigrati.
L’esecuzione, che ha suscitato le proteste delle associazioni per i diritti umani, è stata particolarmente brutale: la donna, che urlava disperata, è stata trascinata in strada e costretta a terra da quattro agenti di polizia e quindi decapitata con una spada. Inoltre, per rendere ancora più dolorosa la morte, le sono stati negati gli analgesici, somministrati invece a diversi condannati a morte.
Un’esecuzione estremamente cruenta anche perché la donna non era stata sedata come accade in altri casi. Più che sulla pena di morte, le proteste dei sauditi si sono quindi concentrate sulla modalità dell’esecuzione e sulla richiesta di modalità «più umane» per mettere a morte i condannati. Meno interesse desta il fatto che la condanna della donna sia giunta grazie a una confessione che la stessa ha evidentemente ritrattato in punto di morte, e al termine di un processo nel quale non ha avuto alcuna possibilità di difesa. Secondo una nota del ministero dell’Interno saudita, che rappresenta una monarchia assoluta nella quale l’unica legge è quella della famiglia reale, l’esecuzione: «implementa le leggi di Dio contro tutti quelli che attaccano gli innocenti e spargono il loro sangue. Il governo avverte tutti quelli che sono indotti a commettere crimini simili, che nel nel loro destino c’è la giusta punizione».
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